Una rete unisce il passaggio tra gli anni ’80 e Studi Festival
Se non tanto la densità e l’opulenza, una sensazione di apparente disordine è ciò cui Alberto Mugnaini, insieme a Yari Miele e Corrado Levi probabilmente miravano, nel disporre le opere di questa piccola esposizione su una parete a quadreria. Il nucleo maggiore di lavori si riunisce appunto in questa sala centrale, per poi arricchirsi di altri spunti qua e là per la casa-studio Alberto Aperto, ormai nota proprio perché spesso sede di questo tipo di esposizioni domestiche aperte al pubblico.
Di spunti appunto si parla, e in particolare di spunti che vogliono tracciare un abbozzo della scena artistica italiana negli anni ’80. L’intento di unificare le diversissime tendenze sotto un unico filone non è nemmeno lontanamente auspicato: a esperienze pittoriche vicine al neoespressionismo, si affiancano modalità artistiche che scardinano il modello di fruizione frontale dell’opera e che attingono a discipline apparentemente lontane all’arte – l’osservazione scientifica, la statistica – o ancora, linguaggi che anticipano quell’attenzione poetica al quotidiano che avrà il suo sviluppo maggiore negli anni ’90. La mostra è una delle poche all’interno della programmazione di Studi che vede alla base un atteggiamento critico di stampo storico, piuttosto che lirico e poetico, come invece più normalmente si è visto all’interno del festival.
Alcune chicche si distinguono tra i numerosi lavori esposti, pur dovendo competere anche con il bell’arredamento dello studio e con la fornitissima libreria: al centro della parete non è una foto di famiglia del proprietario ad attirare lo sguardo, ma la foto della formazione calcistica composta da operai senegalesi e messa insieme da Maurizio Cattelan, tutti vestiti con le loro divise nere e la scritta Raus sul petto. Una Alcova d’acciaio di Umberto Cavenago sembra aver corso sulla parete verticale fino ad arrivare a ridosso del soffitto. Passato indenne sotto il minaccioso macigno, lo spettatore potrà accedere al piano interrato, dove uno dei Photo-objects di Cesare Pietroiusti, la riproduzione ingrandita di un pacchetto di sigarette aperto e disteso sul muro, con tanto di strappi e scarabocchi, è l’esempio di un’opera realizzata sulla spinta della tendenza all’osservazione scientifica e sociologica del comportamento umano, che ha grande successo in quegli anni. Fa parte della stessa storia la sedia di Domenico Nardone e Daniela De Dominicis, accompagnata dalla scritta “Sosta 15 minuti”. Essa si confonderebbe con l’arredamento se non fosse sormontata dai grafici che riportano gli esiti dell’indagine statistica sull’uso della stessa sedia, da parte del pubblico di passanti, quell’inverno del 1983, a Populonia. Mario Airò interviene invece nello spazio tra il bagno e la camera da letto, dove colloca dei bicchieri di vetro a terra, in modo tale che la loro posizione rifletta un rapporto armonico matematicamente calcolato. Tra le opere presenti, un termometro di Liliana Moro è un altro pezzo di quella storia che nasce tra le aule dell’Accademia di Brera e che sfocia poi nella creazione dello Spazio di via Lazzaro Palazzi. Così come Moro e Airò si formano sugli insegnamenti di Fabro, tanti altri si raccolgono intorno alla figura di Corrado Levi, che attraverso l’attività espositiva del suo Studio di via San Gottardo, permette ad artisti ancora in erba di esporre per la prima volta: Stefano Arienti, Vittoria Chierici, Mario della Vedova, Marco Mazzucconi e Amedeo Martegani sono solo alcuni tra gli artisti che hanno cominciato con Levi e che oggi trovano i loro lavori appesi alla stessa parete del loro maestro.
Un rotolo di carta bianca è parzialmente svolto, ma se lo fosse del tutto attraverserebbe la sala dello Studio Alberto Aperto e andrebbe oltre, per decine di metri, proprio allo stesso modo di come ciò di cui è registro ha attraversato tutte le esperienze di cui si è qui parlato, dagli anni ’80 ad oggi. Sulle pagine si intravedono in rilievo dei nomi scritti in bianco a mano, sono quelli di coloro che in qualche modo hanno toccato il lavoro di Vincenzo Chiarandà e Anna Stuart Tovini, uniti sotto il nome societario di Premiata Ditta S.a.s. dal 1984. In particolare, i punti attraverso cui il duo di artisti ha deciso di far passare la sua Linea (in)finita, qui esposta, rappresentano tre lavori salienti della sua storia. La nostra materia prima generalmente si presta volentieri (1987) era una delle prime forme di manifestazione e concretizzazione dell’entità societaria Premiata Ditta. Attraverso questo depliant, pubblicato in riviste specializzate e distribuito in manifestazioni artistiche, i due invitano i lettori e i pubblici a entrare in contatto con loro, attraverso la compilazione e la spedizione di un coupon cartaceo. Tra il 2009 e il 2011, attraverso la piattaforma online Undo.net, attiva dal 1995, Vincenzo e Anna raccolgono forze e firme per inviare una Appello al Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, in cui si riportano gli esiti del dibattito attivato all’interno del mondo dell’arte nei mesi precedenti, attraverso tavoli e incontri, e in cui si esorta a tornare a mettere al centro delle scelte politiche la cultura, piuttosto che le strategie di mercato e politiche(si) a essa correlate. Il terzo momento saliente del lavoro artistico di Premiata Ditta è nientemeno che Studi Festival – organizzato con l’aiuto di Rebecca Moccia e Claudio Corfone – un espediente attorno a cui si raccolgono una serie di forze diverse da tre anni a questa parte; un dispositivo di partecipazione, che il duo considera sua opera in tutto e per tutto. La pagina bianca è una linea del tempo acronica, che si concretizza nei ricordi e nelle esperienze, tuttora vive e attive, di coloro il cui nome è stato scritto su essa.
Questa mostra si rivela allora centrale all’interno delle tante proposte di Studi, perché il festival stesso è l’esito di quella storia disomogenea, cominciata negli anni ’80. Allora l’immagine della quadreria descritta prima assume sempre di più la connotazione di una rete, o forse una nuvola: la rappresentazione dei modelli di aggregazione contemporanei entro cui anche i linguaggi dell’arte hanno trovato il loro posto.
Bianca Frasso
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