Grano duro, grana dura
Grano duro, grana dura
Una freccia che parte dalla porta di ingresso e che indica la finestra sulla parete di fronte è l’elementare mappa della mostra ospitata nello studio di Ele’na Nemkova. Sulla freccia cinque nomi per cinque sculture, una in fila all’altra, appoggiate sui tavoli che normalmente arredano lo studio. Grano duro è il titolo che lega le cinque sculture e che allude all’immagine della pietra che batte ripetutamente la spiga, per ricavarne finissima farina, ma forse – dice Ele’na – avremmo dovuto chiamarla “grana dura”: la grana dura è il legno che non si fa piegare, la gomma che non si fa intrecciare, il vetro che non si lascia maneggiare, è la materia nelle mani dell’autore, che a un certo punto decide di sottostare alle leggi della fisica più che a quelle della creazione umana.
David Casini porta un piccolo assemblaggio di staffe, perni, piastrine quadrate e rotonde che hanno trovato il loro equilibrio perfetto. L’ammiccamento alle forme del neoplasticismo è chiaro, ma il rigore è rotto dalla presenza di una mano, morbida allo sguardo, molto umana, e di un foglio stropicciato, le cui pieghe incontrollabili minacciano la vita della composizione.
Poco più in là, quattro riviste vengono rese scultura da Marcella Vanzo, irrigidite nelle loro maglie di gesso, si caricano di un valore che come giornali forse non avevano mai avuto. Comprati per essere svogliatamente sfogliati e presto lasciati a fare polvere. Durante il loro inutile riposo sembrano esservi caduti sopra dal soffitto dei vermicelli e delle piccole masse informi dalla sembianza molliccia, poi irrigidite in lucente ceramica colorata. Ricordano vagamente gli esserini di Eraserhead del primo Lynch, che cadono dal cielo con dei sonori plaff. Arrivati sulle pagine compongono dei buffi volti: la materia ribelle prende una vita propria che non è solo fisica, ma anche narrativa.
Poco oltre, quella che pare una lamiera in ferro, piegata a formare come una stella a tre punte, laccata e lucidata, sembra fare scudo a qualcosa dietro di lei. Arrivati dall’altra parte della scultura, il ferro si rivela però essere un solido intreccio di corteccia di betulla, lasciata nuda. È legno che l’artista ha portato in Italia direttamente dalla Russia, sua terra d’origine, dove questa particolare lavorazione ha radici antichissime e porta con sé una serie di rituali e di simbologie legate alla raccolta della corteccia, possibile solo da marzo ad aprile. È raro trovare questo legno dalle nostre parti, così i listelli, intrecciati dall’artista stessa, raccontano da soli la storia del loro viaggio.
Mi sento osservata, alle mie spalle un uccello mi guarda. Le sue forme di si definiscono faticosamente nell’argilla ruvida e nella resina, lavorate da Marta Pierobon. Sembra aver faticato per liberarsi dalla materia di troppo e ora si gode sornione il suo meritato riposo. Continua a guardarmi. Il suo becco si tinge d’oro e di rosa pastello, tinte che si ritrovano nell’ultima scultura in mostra, il curioso assemblaggio posto sul davanzale dello studio, a pochi centimetri. Alberto Scodro mette insieme il vetro e la sabbia grezza fino a far sì che da questo incontro forzato si generino una serie di sottili cilindri, che uno sopra l’altro si sostengono in un comodo equilibrio.
Scodro è stato chiamato da Nemkova e dai tre artisti che la accompagnano dopo che il gruppo di amici ha visto le immagini delle sue sculture dal web. Un gesto di interessamento davvero ammirevole e fresco, che si discosta dalla tendenza tipica di ogni circolo chiuso – come tanti a Milano – in cui la porta si apre sempre e solo per i soliti quattro compagni.
Bianca Frasso
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